W.A.S.P. - "The Neon God Part II: The Demise" (Noise/Sanctuary, 2004)
Iniziamo con l'unica cattiva notizia: niente Frankie Banali (presente in pianta stabile Stet Howland dietro le pelli). Il resto della recensione è in tranquilla discesa, poiché l'atteso seguito della saga "Neon God" giunge a placare la fame dei fans più incalliti e premia la loro pazienza con nove-brani-nove, senza riempitivi e con qualche buona idea compositiva, che non fa mai male.
Mr. Blackie Lawless appare convinto più che mai del suo secondo capitolo. E' non solo convinto, ma pure ispirato; ed una volta tanto anche concreto nel realizzare canzoni che non si esauriscano nel ritornello. Aleggia sempre il fantasma dell'Idolo Cremisi, perdurano le reiterate fughe su terreni già battuti, appena migliorata la resa della produzione, ma… funziona! La concretezza e la messa a fuoco sulle canzoni hanno dato a questa seconda parte un taglio più stimolante delle pretese iniziali.
Come attestato dalla calata italica avvenuta poche settimane fa (ed invertendo il giudizio espresso in occasione della scialba esibizione al Gods Of Metal), gli W.A.S.P. dimostrano che, concentrandosi, sanno assestare dei bei colpi. Anche se Blackie è ormai un omino lontano dai suoi efferati ed oltraggiosi esordi; anche se la band che lo accompagna è tutt'altro che un degno supporto.
La musica in sé prosegue il percorso teatrale intrapreso nella prima parte, dando forse maggior peso alle chitarre e puntando su un impatto superiore. La voce, beh… il trademark degli W.A.S.P., che piacciano o no, è quello e mi guarderei bene io stesso dal cambiarlo.
La vicenda di Jesse Slane trova quindi il suo degno compimento attraverso la teatrale "Never Say Die" (finalmente chitarre bastarde nei riff ed incisive nei soli!), "Resurrector", "The Demise", la ridondante (ed autocelebrativa?) "Come Back To Black", fino al tour de force finale di "The Last Redemption": tredici minuti di composizione stratificata per un'"opera nell'opera".
Ottima la title-track, bilanciato melange tra solennità atmosferica e rabbia interpretativa (un invasato Blackie a guidare le danze, il perentorio tappeto di hammond e le rullate infinite di Howland, per dare l'idea a chi ancora non conoscesse questo aspetto dell'autore di "Animal"…).
Episodio a parte la curiosa "Tear Down The Walls": è possibile cantarvi sopra tutta "Born To Be Wild" degli STEPPENWOLF, ritornello incluso (stessa identica progressione armonica), ed ha qualcosa che ricorda pure "The Real Me" degli WHO (già coverizzata su "The Headless Children")…
Rimarrebbe la domanda posta pochi mesi or sono: vista la crisi del settore, perché non fare uscire i due album riuniti in una confezione doppia?
Mr. Blackie Lawless appare convinto più che mai del suo secondo capitolo. E' non solo convinto, ma pure ispirato; ed una volta tanto anche concreto nel realizzare canzoni che non si esauriscano nel ritornello. Aleggia sempre il fantasma dell'Idolo Cremisi, perdurano le reiterate fughe su terreni già battuti, appena migliorata la resa della produzione, ma… funziona! La concretezza e la messa a fuoco sulle canzoni hanno dato a questa seconda parte un taglio più stimolante delle pretese iniziali.
Come attestato dalla calata italica avvenuta poche settimane fa (ed invertendo il giudizio espresso in occasione della scialba esibizione al Gods Of Metal), gli W.A.S.P. dimostrano che, concentrandosi, sanno assestare dei bei colpi. Anche se Blackie è ormai un omino lontano dai suoi efferati ed oltraggiosi esordi; anche se la band che lo accompagna è tutt'altro che un degno supporto.
La musica in sé prosegue il percorso teatrale intrapreso nella prima parte, dando forse maggior peso alle chitarre e puntando su un impatto superiore. La voce, beh… il trademark degli W.A.S.P., che piacciano o no, è quello e mi guarderei bene io stesso dal cambiarlo.
La vicenda di Jesse Slane trova quindi il suo degno compimento attraverso la teatrale "Never Say Die" (finalmente chitarre bastarde nei riff ed incisive nei soli!), "Resurrector", "The Demise", la ridondante (ed autocelebrativa?) "Come Back To Black", fino al tour de force finale di "The Last Redemption": tredici minuti di composizione stratificata per un'"opera nell'opera".
Ottima la title-track, bilanciato melange tra solennità atmosferica e rabbia interpretativa (un invasato Blackie a guidare le danze, il perentorio tappeto di hammond e le rullate infinite di Howland, per dare l'idea a chi ancora non conoscesse questo aspetto dell'autore di "Animal"…).
Episodio a parte la curiosa "Tear Down The Walls": è possibile cantarvi sopra tutta "Born To Be Wild" degli STEPPENWOLF, ritornello incluso (stessa identica progressione armonica), ed ha qualcosa che ricorda pure "The Real Me" degli WHO (già coverizzata su "The Headless Children")…
Rimarrebbe la domanda posta pochi mesi or sono: vista la crisi del settore, perché non fare uscire i due album riuniti in una confezione doppia?
Dovendo scegliere, se preferite l'approccio da concept tipico, impreziosito da stacchi acustici, monologhi e amenità varie, puntate sul "Part I". Se siete più interessati alla consistenza delle tracce e la storia narrata vi preme il giusto, suggerirei di optare invece per questo "Part II". In ogni caso sapete benissimo che, se l'acquisto vi soddisferà, sarete moralmente obbligati ad accaparrarvi anche l'altra metà della mela. Per cui, buon appetito!
Etichette: Archivio Hammerblow, giornalismo, metal
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