W.A.S.P. - “The Neon God: Part 1 - The Rise” (Sanctuary, 2004)
Altro grande ed atteso ritorno in un già prolifico 2004, “The Neon God” timbra l’undicesimo cartellino in fatto di studio albums per “Nerino Senzalegge”, al secolo Blackie Lawless, e la sua ciurma. Trattasi di un concept la cui ideazione risale a diversi anni orsono, momentaneamente accantonato in favore di quanto avrebbe poi costituito il precedente “Dying For The World”.
Per musica ed atmosfera ci si riallaccia ovviamente al celebre “The Crimson Idol”, concept anch’esso, ultimo album a godere di una produzione che si potesse definire tale ed anche il primo a vedere diminuire il peso specifico del “riff” nel songwriting di Blackie&Co. Difatti nelle prove successive, da “Still Not Black Enough” (in pratica un progetto solista) fino al succitato e discutibilissimo “Dying For The World” (instant album dal flavour propagandistico sulla scia post 11 settembre), la brillantezza dei primi W.A.S.P. è divenuta sempre più una chimera, complici la testarda convinzione di Blackie di essere un buon produttore e la mancanza di un chitarrista incisivo in sede di stesura dei brani. Anche la prima parte di “Neon God” (la seconda giungerà quest’estate, NdA) non fa eccezione, rivelando chitarre poco inclini al riff memorabile e foriere di molteplici deja-vu, nonché una produzione non brillante, a tratti addirittura squilibrata. Prima che si possa pensare al flop vale anticipare qualche aspetto indiscutibilmente incoraggiante dell’album:
1) Storia a parte, che può piacere o no, le canzoni ci sono ed entusiasmano molto più di quelle contenute negli ultimi zoppicanti parti di casa W.A.S.P.
2) Ci sono degli highlight nel disco che mancavano ai suddetti album, anche se costruiti su sonorità ed idee prese in prestito a “The Headless Children” e “The Crimson Idol”; tra l’hammond che spunta a mo’ di tappetino, i cori “ooh-ooh” e altre auto-citazioni di farina propria nel sacco se ne trova, sebbene sia difficile stabilire quanta sia nuova…
3) Blackie, dal canto suo, pare ispirato e motivato al punto giusto per confezionare delle prestazioni di livello.
4) Dietro le pelli, se Iddio vuole, ritorna quel Frankie Banali che tanto ha contribuito già in passato alla sezione ritmica dei nostri. Chi non ricorda con emozione l’arrembante assalto all’arma bianca di “Mean Man” come uno degli attacchi più spettacolari di sempre, assieme a “Painkiller” e poche altre elette power tracks? Stet Howland rimane nella sola “Wishing Well” ma, vista l’alternativa, non piangerei più di tanto la sua latitanza.
Qualche breve cenno alla storia che anima l’opera. Jesse Slane, un orfano vittima di abusi, scopre di avere la facoltà di leggere dentro le persone e manipolarle (almeno così crede). Si costruisce così un seguito di adepti che lo rende il Messia “oscuro” del ventunesimo secolo; con i dubbi insiti “Chi sono veramente?”, “Perché sono qui?”, “Sono veramente il Messia del male?”. Chi rimpiange “Operation Mindcrime” o “Abigail” ha tutto il mio appoggio…
Il disco segue un percorso cronologicamente legato al dipanarsi degli eventi, dall’arrivo di Jesse all’orfanotrofio (la buona “Whishing Well”) alle attenzioni di personaggi poco simpatici (“Sister Sadie”, potenziale hit single se riproposto in un surrogato che eviti gli effettivi sette minuti e quarantadue), alle fughe mentali del nostro eroe per sfuggire alla realtà (“The Red Room Of The Rising Sun”). Molti i filler, i cui titoli traggono in inganno: “Why Am I Here”, “Me & The Devil” e un altro paio non arrivano al minuto, fungendo in realtà da intro ai rispettivi brani successivi.
Volendo individuare le track vincenti, propenderei per “Wishing Well”, “Asylum #9” (bel coro e ottima grinta), “XTC Riders” e l’eccezionale chiusura “Raging Storm”, unica vera perla dell’album, forte di una stupenda melodia che fa finalmente dimenticare i paragoni con “Crimson Idol”. Il tema portante è lo stesso con cui veniva aperto il disco, qui finalmente sviluppato e premiato da un arrangiamento vincente.
L’unico momento di gloria per l’ascia di Roberts è costituito dalla ballata “What I’ll Never Find” (suicidio del migliore amico di Jesse). Non che non sia un chitarrista dotato, per carità. Solo che le sue parti altrove suonano al servizio di idee non sue, e la produzione non lo aiuta ad uscire dal marasma dei cori e della batteria.
Un lato positivo da non sottovalutare è la longevità del prodotto, come tutti i concept d’altronde. Ad ogni ascolto la tentazione di facili paragoni ed infelici classifiche scema, lasciando spazio alla musica come insieme. In questa ottica il disco ha ottime potenzialità e premierà la fedeltà di ogni fan di vecchia data, attento alla sostanza e all’album come unicum, anziché collage di canzoni.Nonostante i suoni discutibili ed i troppi “già sentito” (“The Running Man” docet: quante volte abbiamo sentito quel riff nei tuoi album, Nerino?), “The Neon God: Part 1 - The Rise” si rivela in sostanza un buon disco. Fossi in Blackie mi rimboccherei le maniche per scovare un chitarrista con più personalità dell’anonimo Darrell Roberts, magari chiamando alla propria corte un Kulick qualunque ed un produttore che sappia valorizzare tutti gli strumenti. Temo che anche la seconda metà della torta sia in realtà già uscita dal forno, pronta solo ad essere servita; speriamo che almeno la guarnizione sia un po’ diversa, visto che gli ingredienti di base saranno sicuramente gli stessi. Buoni ed inattesi, sebbene non freschissimi.
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