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18 luglio 2005

ELEGY - "Labyrinth Of Dreams" (Shark Records, 1992)

Questo è un album a cui tengo moltissimo. Nel ’92 era difficile imbattersi in prodotti di metal “canonico”, specie ad opera di nuove leve. Bazzicavo sempre le pagine della rubrica “Defenders” su Flash alla ricerca di qualcosa che non fosse grunge o (altra moda di allora che ha lasciato poche tracce credibili) tantomeno black. La Shark Records proponeva materiale non eccelso ma almeno coerente dal punto di vista stilistico: TITAN FORCE, ENOLA GAY, STRATOVARIUS, NARITA, ecc., il che mi invogliò a provare un ascolto disilluso (e riluttante, vista la copertina).
Temevo di imbattermi in un platter zeppo di elucubrazioni pseudo-prog, che non tollero, o di power fiacco e nostalgico (ribadisco: i tempi erano pessimi e “Somewhere Far Beyond” dei BLIND GUARDIAN e “Eternal Prisoner” di AXEL RUDI PELL per me erano due dei pochi scogli metallici a cui aggrapparmi…).
Poco male. Come la storia avrebbe ribadito più avanti, se gli USA e l’Inghilterra piangono miserie, l’Europa del nord fornisce sempre prodotti di qualità, anche se snobbati da molti. Il segreto è che forse arrivano sempre “dopo”, ma sono cento volte più professionali di tanti prime movers che vivono di rendita (vedasi l’immobilismo di tante proposte teutoniche). E infatti il CD si rivelò un acquisto che benedico da 11 anni…
“Labyrinth Of Dreams” esplode alla grande alla prima traccia, presentando all’ascoltatore tutte le coordinate del metal targato ELEGY: metal tradizionale, tecnicissimo ma anche essenziale nel cercare refrain che fanno “svoltare” le canzoni; trascinante come gli HELLOWEEN dei Keepers ma delicato quando richiesto; Malmsteeniano nell’approccio chitarristico ma anche prog (non da sfigati) negli arrangiamenti.
Sugli scudi praticamente tutti. La voce di Hovinga, che sarebbe poi convolato nei PRIME TIME dopo il terzo album, arrivava veramente là dove osano le aquile, espressivo pur senza toccare le vette melodrammatiche di Midnight (CRIMSON GLORY). Talvolta ricorda il GEOFF TATE di inizio carriera, meno spigoloso e più a suo agio con le tonalità alte.
“I’m No Fool” e “Take My Love” rappresentano il volto degli Elegy che meglio concilia l’efficacia dei ritornelli con l’impatto metallico: due mid tempos sostenuti, spezzati, con un tiro invidiabile e lavori d chitarra e batteria da rabbrividire. Il primo è pià esuberante e “happy”, il secondo decisamente più teso, fino ad aprirsi su ponte e ritornello, per poi dilatarsi sul solo di chitarra. Su Hovinga non mi esprimo più.. diciamo che Andy Deris avrebbe potuto rimanere dov’era, se avessi potuto scegliere io il sostituto del defezionario Michael!
(nota personale: ELEGY, HELLOWEEN e RIOT, quando hanno scelto i rispettivi nuovi cantanti, hanno curiosamente tutti optato per singer più adatti all’hard rock che al metal, che hanno spesso sfigurato nel riproporre il vecchio materiale in sede live... Che sia un’epidemia?)
“Over And Out” ci riporta su tempi medi, comunque intensi e melodici: brano con molto respiro, ben congegnato e con qualche reminiscenza dei QUEENSRYCHE di “Empire” nella costruzione, sebbene più tecnico. Qui come altrove le tastiere fanno ciò che dovrebbero fare in ogni disco metal che si rispetti: non rompono gli zebedei con le corsette barocche dietro alle chitarre! Tappeti e suoni sono scelti e applicati intelligentemente, preferendo sottolineare anziché appesantire.
Splendida la title track, in linea con quanto avrebbero poi riproposto sul seguente “Supremacy”: lento teso, impreziosito da un crescendo vocale intensissimo, col gruppo che letteralmente spinge Hovinga al cielo e lo riaccompagna, cullandolo morbidamente, di nuovo in basso.
“Powergames” ha forse l’unico ritornello vagamente stucchevole, ma seguire gli intrecci vorticosi di chitarre e i tempi spezzati della batteria risolve ampiamente il problema.
Mazzata finale “The Guiding Light”, più tedesca e lineare -l’ombra delle zucche di KISKE aleggia!- : doppia cassa e assoli mozzafiato in una degnissima speed-song di chiusura.
L’unico appunto può essere un briciolo di freddezza, vuoi l’estrazione geografica, vuoi la straripante tecnica compositivo/esecutiva. Di fatto rimane un album ricchissimo: potente, dolce, raffinato, teso, passionale, orecchiabile.
Una perla per estimatori del metal tradizionale, una manna per i tecnicisti (che si possono godere le due pazzesche strumentali, tra CACOPHONY e MALMSTEEN, solo che le palle qui ce le hanno tutti, non solo le sei corde!), una scoperta per chi cerca melodia e non è mai incappato nel disco per questioni di “etichetta”, una severa lezione per chi storce il naso se la batteria non è SEMPRE in doppia cassa, anche quando non la si sa suonare, o c’è un PC che la suona/corregge/raddoppia/triggera/ecc., a seconda delle esigenze!.
Il classico medicinale per chi sostiene che Malmsteen è un chitarrista fantastico ma non si spreca nella composizione, preoccupandosi esclusivamente dei solos (PS: comunque io Yngwie lo adoro lo stesso…).
Godi popolo!

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