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18 luglio 2005

PAN RAM - "Time Is Gone" (Stone Records, 1993)

PREMESSA

Inizio come annunciato la lunga serie di post contenenti recensioni, interviste e report scritti per la webzine HAMMERBLOW, defunta il 14 luglio 2005. Prego i non interessati al metal di non spazientirsi ed avere l'accortezza di scorrere oltre, almeno finché non (ri)trovano un argomento di loro gradimento.
Colgo l'occasione per ringraziare chi, nel bene e nel male, ha permesso l'esistenza di HAMMERBLOW (l'enfatico Agnar e il mite Guardian), nonché il "passeggero" Wild Cat (ora su
Stereo Invaders), che ha mostrato seppure per poco tempo
COME SI SCRIVE UNA RECENSIONE (cioè in italiano!). Qualcun'altro dell'ex-redazione ha invece trovato simpatico il cominciare a sragionare e seminare merda ai quattro venti, convinto che darsi delle arie equivalesse ad essere qualcuno. Salvo poi finire a scrivere le stesse cose su un sitino di fascisti che non vale nemmeno la pena nominare. L'unico risultato che ha ottenuto costui è stato di contribuire pesantemente ad abbassare la reputazione del sito coi suoi infantilismi isterici. Classico "immobilista" del metal, nato anagraficamente (e non solo) l'altro ieri e presunto grande intenditore di "metallo vero" (tutta roba trita e ritrita, tra l'altro), perché si sa, tutto il resto del metal fa schifo o "non è metal"... Io credo che la strafottenza e l'ignoranza la scena la penalizzino, anziché aiutarla. Comunque di gente così ce n'è davvero tanta in giro e il mio unico rammarico è quello di aver visto una buona conoscenza andare alla deriva, perché i gusti in sé sono personali (se uno vuole ascoltare UDO faccia pure). La maturità no: o c'è o non c'è. Occhio quindi se sentite qualcuno accanto (s)ragionare di cosa è "tallo" e cosa no, perché c'è puzza di pischellame. Io vi ho avvisato.

Ma un bel CHISSENEFREGA in calce ce lo metto volentieri. Comunque sia andata io mi sono divertito. E mi sono reso conto che è meglio non prendersi troppo sul serio. Buona lettura.

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Sembra che il destino dei miei album preferiti sia di avere delle copertine ai limiti del concepibile.
Non fa eccezione “Time Is Gone” dei PAN RAM, degnamente presente nella lista dei cinque album inguardabili di sempre, assieme a perle del calibro di “Tears” dei MOON OF SORROW, “State Of Triumph” dei METALIUM e uno qualunque della premiata ditta GWAR…
Se Dio vuole la sostanza spesso si discosta dalla forma, e ciò spiega l’ancor vivo interesse per gli IRON, da anni massicciamente impegnati nel proporre video, copertine e immagini sempre più imbarazzanti.
Toltomi anche ‘sto sassolino, eccoci al disco.
Dopo prime mosse più influenzate dallo street, i tedeschi PAN RAM focalizzarono la loro proposta su un metal decisamente melodico ma di classe. Premetto che questo loro secondo album non è graziato da una mega-produzione, ma tutti gli strumenti godono di ottima visibilità e soprattutto le parti acustiche sono cristalline. A livello puramente musicale la forza del disco sta nel melange tra tempi medi, rinforzati da cavalcate dall’incedere parecchio americano, squarci assolutamente AOR e qualche fuga repentina e ben corazzata, in pieno stile ’80, ovvero attacco diretto ma melodico.
Termini di paragone sono difficili da trovare poiché, pescando in qua e in là, la band riuscì a mio parere a costruirsi comunque una forte identità, forse proprio grazie al continuo sforzo di combinare anime diverse. Diciamo che, ad esser larghi, si possono individuare influenze ed atmosfere dei LIZZY BORDEN epoca “Visual Lies” (e quindi di certi QUEENSRYCHE più sintetici e molto ariosi), così come dei PINK CREAM 69 (almeno nelle parti più rockettare, con un retrogusto americaneggiante, comunque sempre saldamente hard e “pestone”). Lascerei la parola “progressive” ad altri; è un termine sempre impegnativo e spesso fuorviante.
Perché la formula smise di funzionare al disco successivo, lo scialbo “Rats” del ’96, non ci è dato saperlo. Nonostante si fossero guadagnati l’onore di spalleggiare i DEEP PURPLE nel tour di quell’anno, è innegabile che quel terzo album non seppe né confermare gli ottimi spunti di “Time Is Gone”, né tantomeno gettare le basi per un lancio in grande stile, magari aggiornando la proposta in base ai tre anni trascorsi dalla precedente opera discografica. Ovvia conseguenza, l’oblio.
Entriamo nel dettaglio dei brani. L’opener “Target You” apre le danze in modo trascinante, con una entusiasmante cavalcata ben arrangiata: riff quadrati, solos e abbellimenti chitarristici vari (l’assolo è un surrogato di metal anni ’80), voce pulita e alta abbastanza da dominare la situazione, ritmica pronta ed efficace. La struttura del pezzo e le alternanze elettrico/acustico rendono giustizia ad un ottima sintesi di quello che propone anche il resto dell’album: grinta e melodia, slancio “metallaro” e preziosismo formale (leggasi “qualità” e non “quantità”).
Per i filo-teutonici l’attacco di “The Wolf Is Out” risulterà senz’altro più gradito, vuoi per l’up-tempo, vuoi per le linee chitarristiche che soleggiano già in apertura e ricamano un eroico botta-e-risposta col singer su ponte e ritornello. Echi di american metal à-la LIZZY BORDEN rimangono comunque presenti. Decisiva la batteria: pulsante, brava ad incalzare da sotto le chitarre e “frustare” stacchi e rifiniture. Ottimo l’assolo di Tessalla, tirato e urlante, scagliato su un tappeto di doppia cassa senza fronzoli. Degnissima la prova del cantante, pronto a non far prigionieri quando si fa sul serio.
E’ poi il turno di “Love Hereafter”, in assoluto una delle mie preferite: ha il classico attacco acustico con voce eterea, per poi esplodere in un epico mid-tempo ben concepito e perfettamente giocato sul famoso equilibrio riffone corazzato/finiture cristalline. Per certi versi è una capacità di sintesi che mi ricorda gli EDWINDARE di “Cantbreakme”, e visto che lì il “cesellatore” era JEFF KOLLMAN non mi pare un paragone da poco. Sapiente l’uso della leva nel solo, a plasmare letteralmente le note, modellandole sulla song senza perdere un’oncia di potenza.
“Black Rain” parte in pieno stile QUEENSRYCHE, sia vocalmente che chitarristicamente (riffone e fischi a incattivire). Il brano si involve poi in digressioni acustiche per aprirsi sul ritornello, non efficacissimo forse (Jack Steen sembra a volte cantare “alla giapponese”: spesso modula gli acuti come facevano suoi colleghi dagli occhi a mandorla: LOUDNESS, E-Z-O… avete presente quando, per quanti sforzi tu faccia, si sente che la lingua proprio non è la tua?), ma gli arrangiamenti ripagano della scelta meno “frontale”: il solo su base ritmica spezzata e più marcata risolleva la tensione e risolve il brano, chiuso rievocando le sfumature ‘RYCHE delle prime note.
Una menzione per la title-track: trattasi di interludio acustico con voce pulita (pistolotto evocativo e un po’ “christian”: si chiede ammenda lassù per le scempiaggini di quaggiù, detta in soldoni) e cassa lontana a mo’ di tam-tam.
Meglio “Passion And Crime”, che ha l’unico attacco decisamente “sleazy” e che sta a questo album come “Sweet Little Suzi” sta ad “Eternal Prisoner” di AXEL RUDI PELL. Ma, a sorpresa, ancora giù con la chitarra pulita, subito sottolineata e incalzata da una batteria frenetica; e quindi via, con l’ennesimo connubio melodia/potenza. Solo buoni arrangiamenti possono tenere insieme tanti pezzi con componenti diverse, lasciando in bocca il gusto finale di un’identità unica di gruppo e di brani vitali e dotati di singole personalità. Assolo debordante e una ripresa spumeggiante portano la song alla fine, con gran pathos e combinazione azzeccata di passaggi delicati e marziali.
L’album prosegue in perfetto equilibrio, seguendo le stesse dosi e con la stessa abilità nel confezionare brillanti coacervi di metallo melodico. Citerei le sfumature ritmiche funkeggianti di “Dog Eat Dog”, accoppiate a linee vocali più aspre e “maleducate”, l’assolo alla VIVIAN CAMPBELL di “Too Soon, Too Late” e l’anthem trascinante di “Don’t Give Up”, su un riffaccio alla TNT come solo negli ’80 si sentiva fare: ascoltate l’assolo e la relativa base ritmica, e ditemi se non siamo tra prog metal e class metal svedese!
Pur non disponendo di testi (il booklet è praticamente un fogliolino con una foto, nomi e ringraziamenti) le liriche paiono abbastanza spirituali, pur senza sconfinare nel white metal di WHITE CROSS, STRYPER o BRIDE. Diciamo che non avrebbero sfigurato su certi album della Mausoleum records o della Intense (ve li ricordate i SAVIOUR MACHINE? Che fine hanno fatto? Staranno lavorando a “Legend” volume 43, parte 6, capitolo 14, versetto 2? NdA).La reperibilità del disco è medio-bassa, a differenza di “Rats”, che penso venga tuttora usato all’Oktoberfest come sottobicchiere. Se capita a tiro, farci un pensierino mi sembra cosa buona e giusta. Non è il disco che potrà farvi vantare davanti agli amici di avere il riff più tecnico, la batteria più veloce o il cantante più acuto della storia del metal, ma se le qualità che si cercano sono equilibrio, padronanza compositiva, arrangiamenti impeccabili, varietà stilistica, energia, classe, gusto e melodia, beh, allora è tutta un’altra storia!

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