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18 luglio 2005

DEATH ANGEL - "The Art Of Dying" (Nuclear Blast, 2004)

Eccoci finalmente al ritorno thrash della decade! I cinque Bay Area thrashers tornano in studio dopo 14 anni (!) dall’ultimo “Act III”, che in molti ricordano come un capolavoro assoluto di techno-thrash. Purtroppo si trattò anche dell’epitaffio di una band sempre sopra le righe, con molte caratteristiche uniche nella scena di allora: un batterista eclettico benché giovanissimo all’epoca del debutto, l’estrazione filippina dei membri, le convulse linee degli arrangiamenti, la tecnica sopraffina, la fortuna di avere KIRK HAMMETT come produttore del demo che li lanciò: “Kill As One”, del 1985, seconda autoproduzione della band (meglio invece stendere un velo pietoso sul primo demo “Heavy Metal Insanity”, datato 1983 e ristampato come bonus su una rara edizione limitata di “The Ultra Violence”; la particolarità di quel demo risiede nel fatto che allora il batterista aveva all’incirca 9 anni ed il resto della band si aggirava sui 13 -giuro- e che il produttore fu addirittura un non ancora famoso MATT WALLACE!).
Dopo averli visti live al No Mercy dell’anno scorso, ascoltando questo come back non posso che applaudire e gioire per un ritorno in forma smagliante, come se il gruppo non si fosse mai sciolto. In effetti colpisce su tutto proprio la continuità col vecchio repertorio, prerogativa già gustata con “Tempo Of The Damned” dei redivivi (ma poco inclini alle recensioni via mail… NdA) EXODUS.
Come nei tre album di cui i “mutanti della strada” (libera citazione dal secondo episodio in studio) ci fecero omaggio in passato, profonde radici hard rock emergono negli assoli e nelle frequenti contaminazioni, che già a fine ottanta portarono i DEATH ANGEL a spaziare dal thrash più nervoso e convulso, memore dei primi frenetici METALLICA, fino al funky, anticipando in maniera netta i MORDRED (ascoltare “Bored” sul secondo “Frolic Through The Park” e controllare l’anno di pubblicazione per inoppugnabile conferma) e portando poi avanti tale discorso con gli ORGANIZATION, prima reincarnazione dopo lo scioglimento ufficiale, e più recentemente con gli SWARM.
La formazione è praticamente quella dei bei tempi andati, eccezion fatta per l’ascia del defezionario Gus Pepa, degnamente sostituito da Ted Aguilar. La produzione di Brian Joseph Dobbs e della band stessa conferisce all’album una consistenza degna dei predecessori, non eccedendo in inutili modernismi e regalando suoni sapientemente bilanciati e “veri”.
Manca un po’ la furia iconoclasta del debutto, ma come detto il punto di riferimento è l’ultimo “Act III”, album della maturità e dell’equilibrio tra irruenza giovanile ed evoluzione personale.
Tutti sugli scudi, e preme sottolineare la brillante prestazione di Mark Osegueda, i cui passaggi vocali pulito/aspro e viceversa percorrono trame originali, non dissimili da quelle di Alan Tecchio (HADES, WATCHTOWER, NON-FICTION, POWER), evitando le frequenti atonalità di quest’ultimo e perseguendo sempre il fine del groove. Una gamma di tagli vocali soddisfacente e molto varia, la sua; si vedano le intricate “The Devil Incarnate” e “Never Me”. Sulla sola “Prophecy” il nostro pare in difficoltà nel trovare il giusto impatto in un paio di passaggi.
I brani da incorniciare sono svariati, e per diversi motivi. L’iniziale e dirompente “Thrown To The Wolves” prende forma da un delicato arpeggio e crescendo mette subito il sigillo di garanzia su quanto seguirà, contenendo tutti gli ingredienti del tipico trademark DEATH ANGEL. “5 Steps Of Freedom”, più cadenzata, vede prendere corpo quelle sfumature melodiche a cui siamo già abituati; ottima struttura e buon utilizzo dei cori, da sempre peculiari nella dinamica della band. Una sorpresa la tosta e veloce “Thicker Than Blood”, freschissima fast track dalle reminescenze MOTORHEADiane, almeno per quanto riguarda le chitarre, curiosamente molto più semplici che altrove, giusto per preservare la “pacca” quasi rock’n’roll. Da par suo, il buon Rob Cavestany ce la mette tutta per rendere memorabili non solo la succitata “Prophecy” (la cui intro riporta alla mente la vetusta “Kill As One”), ma anche “Land Of Blood” (stacco centrale da brivido!), “Spirit” (partenza da piena Bay Area, cantato invece atipicamente melodico a cura di Andy Galeon) e la finale “Word To The Wise”, semi-ballad sulla scia della splendida “A Room With A View”.
Citerei anche la sardonica “No”, che ribadisce l’importanza del lavoro di arrangiamento: come ogni buon trucco, si può dire riuscito quando non si vede. E difatti qui come altrove tutto fila tanto liscio da apparire banale. Solo ad ascolti più attenti emergono i numerosi e sapienti accorgimenti di una band unica nella scena thrash.
Nella parte centrale l’album si flette leggermente e pare perdere l’immediatezza che lo contraddistingue, in favore di una maggiore riflessività, ma non vedo come possa essere un difetto, vista la qualità dei risultati.
Che dire, speriamo di non dover attendere altrettanto prima di poter inserire nel lettore il successore di “The Art Of Dying”…

Una volta ancora in questo vivace 2004, scatta il “bentornati” per un gruppo sempre diverso, sempre se stesso. Proprio come cantava Osegueda quasi tre lustri fa… “Forever moving, forever changing”, giusto?

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