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18 luglio 2005

UNSANE - "Blood Run" (Relapse, 2005)

Premessa. Metallari tout-court, passate oltre: questo promo, curiosamente capitato in redazione, mi ha reso felice (conosco la band e non disdegno il genere), ma siamo da tutta un’altra parte rispetto ai canoni di Hammerblow. Trattasi di noise allo stato brado, musica che va alla gola e allo stomaco, e di una band che di questo genere ha scritto pagine importanti; e che tiene alto, con la sua presenza nel roster, il livello medio della Relapse, etichetta da anni ai vertici della musica GENUINAMENTE estrema (nonché varia e qualitativamente eccellente).
Anno 2005. I fasti della Amphetamine Reptile Records sono oggi cosa lontana, non solo cronologicamente: il noise rock degli anni novanta ha abbracciato in seguito altre filosofie musicali, dall’ambient al metal, finendo per perdere in più di un caso la rozzezza hardcore degli esordi. SWANS, COP SHOOT COP, BEWITCHED, HELMET ed i sottovalutati SURGERY hanno scavato un solco su cui però i redivivi e storici UNSANE tornano a collocarsi senza grandi problemi, dopo l’ormai datato “Occupational Hazard” (1998) e il seguente scioglimento, che aveva fatto considerare i newyorkesi storia passata. Orbene, sound denso, groove malato e marzialità sonora del presente “Blood Run” non oltrepassano gli standard stabiliti dallo storico “Unsane” (1991), ma si attestano su livelli più che accettabili e fanno superare il legittimo scetticismo per un ritorno a distanza di tanti anni.
L’ossessione per il sangue viene sfoggiata ancora una volta nella puntuale cover di grande effetto, e la glaciale severità della loro proposta musicale si rimaterializza implacabile, con la funesta ineluttabilità di un serial killer. Tutto come un tempo, insomma.
Il trio mostra subito i muscoli nella poderosa “Backslide”, nella ferale “Killing Time” (magistrali rifiuti di blues ancestrale e post rock su una struttura di basso alla NOMEANSNO) e nel macigno “Got It Down”. Ma gioca le sue carte migliori nell’accoppiata seguente, offerta dal tunnel rumoristico di “Hammered Out” e dalle improbabili tentazioni garage di “D Train”, ricordandoci le radici del nervoso sound di New York. “Recovery” è, se si può, un “western noise” lancinante e dilatato. A chiudere, una tonnellata di piombo fuso dalle (rare) vocals dilaniate: la lenta e macerante “Dead Weight”, e giuro che mai titolo fu più azzeccato.
Già, i titoli. Concedetemi il beneficio d’inventario proprio su di essi: è difficile essere sicuri della traccia in ascolto, visto il sistema di copy-protection recentemente adottato. Il disco è infatti smembrato in 99 mini tracce audio e dopo una ventina di stop&go vi assicuro che si perde sia la testa che la pazienza. Sarà un buon metodo per prevenire i furbacchioni degli mp3, ma che fastidio...

Per quanto riguarda l’album in sé... ascoltare, ascoltare, ascoltare. Anche voi che credete che la vita inizi e finisca col metal, fatevelo dire: non sapete cosa vi perdete.

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