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18 luglio 2005

ASTRAL DOORS - "Evil Is Forever" (Locomotive Music, 2004)

Come per il precedente album degli ASTRAL DOORS, anche in occasione del qui presente “Evil Is Forever” si pone la questione annosa della musica come arte diacronica, dall’evoluzione fattivamente legata allo spazio-tempo, oppure come folgorazione anacronistica e slegata da ogni agente esterno (mode, suoni, gusti, scelte di mercato). Ammetto di detestare cordialmente gli immobilisti del metal (quelli per cui tutto è successo tra l’82 e l’87, ragionando come i nostri genitori, che ci sbeffeggiavano secoli addietro per i poster dei Maiden appesi in cameretta; e non capendo che anche il metal è stato “nuovo”, eoni fa). Ma per una volta voglio, sottolineo voglio, ragionare come loro.
Ho riso dell’eccessiva somiglianza del precedente “Of The Son And The Father” con l’immortale “The Headless Cross” (BLACK SABBATH), mi sono spanciato alle forzature vocali di Johansson, tese a ricreare le poderose gesta di Dio e Tony Martin, tanto ostinatamente da risultare poco più di una scimmiottatura. In cuor mio sapevo che la mia reazione era dovuta alla devozione che tutt’oggi provo per gli originali, non certo al rifiuto preventivo di ogni possibile riproposizione di quella musica splendidamente rocciosa. Ed eccomi infatti di fronte al classico disco che convince inoppugnabilmente anche uno scettico come me.
“Evil Is Forever” si discosta di sì e no dieci centimetri dalla precedente fatica, ma è quel tanto che basta per assumere connotati meno asfittici. La band non nasconde piccoli ma decisivi passi verso un power metal più “generale”, componendo con uno spettro di riferimento ‘70/’80 più ampio o sfiorando le sfuriate massicce di acts come PRIMAL FEAR (altri nostalgici, tra l’altro) e SINNER. Il muro di suono delle chitarre e della pompatissima batteria di Lindstedt è sempre in pieno “trip da 1988”, così come la voce, ancora fedele al folletto, stavolta più a suo agio e meno impostata. I brani sono forse frutto di una gestazione più breve rispetto al passato; non si può dire però che manchino i cavalli di battaglia.
L’opener non può che essere un brano veloce: “Bride Of Christ” riprende da dove era rimasto il vecchio album e presenta tutti gli ingredienti disseminati nel resto del disco: batteria spietata, chitarre taglienti dal riff quadrato e dalla melodia facile nei soli, un ritornellone immediato. Come non entusiasmarsi poi dinanzi all’anthemica “Time To Rock” (commuove l’omonimia con una delle poche trasmissioni metal dell’antica Videomusic, assieme a “Heavy con Kleever”), incalzante stantuffo alla primi PRETTY MAIDS? L’intro deliziosamente DEEP PURPLE era Coverdale di “Evil Is Forever” spiana la strada per un severo cadenzato che esplode in tutto il suo splendore. Da non dimenticare i tappeti tastieristici, mai stucchevoli o preponderanti: pura atmosfera e classe seventies rigorosamente di scuola RAINBOW e PURPLE.
Chi vuole saggiare la voce di Nils “al naturale” può provare le battute iniziali di “Lionheart” e la magnifica ed elaborata “Path To Delirium”: il singer è decisamente meno imbrigliato che in passato e si sente. Le fast tracks richiamano palesi i brani d’apertura dei solisti di Dio (che si trattasse di “Stand Up And Shout” o “We Rock”poco importava... la ricetta era sempre quella): “Pull The Break” ne è il prototipo e “The Flame” una variante, con inizio riuscitamente MALMSTEENiano.
Nel complesso i ritmi si mantengono abbastanza sostenuti e ogni canzone osserva un codice di autoregolamentazione che prevede la presenza degli stessi elementi in diversa combinazione. Fa piacere constatare, trascorsi i 50 minuti del CD, che la tattica funziona. Dal vivo, poi, non oso nemmeno immaginare quale sia il potenziale di coinvolgimento di un lavoro così.
Ammesso che arrivino a breve nella nostra penisola, gli ASTRAL DOORS sono riusciti a ricreare la musica, per cui non resta che ricreare il pubblico e trascinarlo per i capelli sotto il loro palco. Ne varrebbe la pena: tra tanti patetici imitatori di un sound che vent’anni fa non hanno neppure avuto modo di ascoltare (figuriamoci risuonarlo oggi), lode a un gruppo il cui CD finisce a pieno merito accanto a “The Last In Line”, per la gioia del mio scaffale “true”, da tempo a digiuno.
Il 1988 non è mai stato così bello!

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