BASTA TEOCRAZIA: fuori Dio dallo Stato e dalla Pubblica Istruzione!
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08 febbraio 2006

L'ineluttabile angolo della prosa

"TRILOGIA DELL'ASTIO" (parte prima)
"PALLE"
06-08 settembre '02

Rieccolo.
Perso il treno del "cosa fare, dove e con chi" affondo piedi palesemente piatti in pantofole di un nero curiosamente variopinto. E me ne frego.
Suggello il mio ostentato solipsismo con un Polaretto all'amarena (curioso notare il caleidoscopio chimico sprigionato da quello che -ai più stolti- appare come un sacchettino di plastica colmo di acqua colorata).
Scaldo le voglie conservate da lunedì, alzo la fiamma alla prima occhiata scivolata sull'orologio che sogghigna "nove" dalla mensola (lo ignoro tronfio e falso come una banconota da tre euro), impano i progetti del tardo pomeriggio e friggo tutto allegramente annegando nella saggia poltrona damascata del salotto.
Ho un salotto.
Obliando il bicchiere mezzo pieno in frigo (perle ai porci) attingo avidamente a quello mezzo vuoto, considerando la cosa un netto risparmio. Mai dare soddisfazione a chi ti considera uno sprecone egoista solo perché non ha ancora avuto l'onore o il caso di essere incluso tra i destinatari di un tuo qualsivoglia qualche cosa.
Chicchessia. Mancava. Ora c'è.
Federe, soprammobili e sotto-oggetti. Pallette colorate. Vinile in ogni dove. Confuso.
Fa un caldo supino (di quelli che ti si sdraiano sul super-io e capita poi che ti svegli col torcicollo). Ma il tubo catodico è un amico più sbarazzino di quanto non si pensi, e talvolta dà pure risposte intelligenti.
Ho un televisore.
Il verbo ha funzione biunivoca. Ma sono egocentrico.
Si rivela la profezia e cumuli di fibre muscolari oleate e bronzee si stagliano all'unisono su una battigia quadrangolare di fotoni, capezzoli, cornee ammiccanti, moirée, caratteri tondeggianti e depilazioni estreme.
"Casa."
Ho una casa.
E ci tengo tutto. Me ne accorgo in momenti lattiginosi come questi.
Annichilendo vasetti di addormentasuocere ripasso questo mio impero con voluttà: cellulosa essiccata in forma di mobili, scorie plastiche e leghe improbabili in veste di quotidiane agevolazioni all'oblio, colori spalmati un po' qua e un po' no, riflessi di oggetti che ne specchiano altri (la borghese conquista delle quattro dimensioni in vani inferiori a dieci metri quadrati -ovvero un certo numero di pertiche ma decisamente pochi cubiti, più qualche palmo a discrezione del geometra che ci ha messo le mani: non più di due, quindi-).
Infine pensieri che imbrattano quel che resta.
Realizzo il guadagno immediato di tale vista.
E ho gli occhiali.
Ho gli occhiali. Ma sì, crepi l'avarizia.
Copiando ed incollando un flusso di informazioni da una sinapsi qualunque, giungo al quadrangolo in luce e scorgo quello che nei secoli andati veniva definito azzardatamente un ragionamento: "che faccio stasera?".
Poi, come vomitato per un caffè con troppo limone, approda beffardo un secondo flusso. Chiaro, pregno di lucine e glutei ancora bagnaticci (è venerdì: non è colpa mia): "perché sto qui e non esco con i soliti gregari a impollinare un locale a caso di genuina simpatia?" (adoro comandare).
Troppi dati.
Scanso una natica e spazzolo via con il tele-coso (quello coi pippoli) i restanti sorrisi pralinati (i denti sono quelle perline timide tra "la palla coi peli" e "le pallone coi pallini").
Sinceramente avvinto da tale rotondità di pensiero, secerno l'ultimo blocco, quello che sembra non significhi un cazzo. Ma poi qualcuno ti spiega sempre che è solo una questione di ottusità se uno non capisce certe cose.
E sono ottuso.
Il blocco tuona viscido e tronfio: "Non hai un cane che voglia uscire con te. Punto."
Bella forza. Mai visto un pensiero acido farsi praticare una fellatio da una maggiorata, se proprio si vuol giocare a pan per focaccia.
"Non ho comprato il pane"
La palla coi peli (la mia, stavolta) pare in vena di presenzialismo.
Dati in eccesso. Non si possono pensare troppe cose insieme o si diventa scemi. O si annega in inutili endorfine. Entrambe fini poco allettanti per un venerdì.
Uccido il quadrangolo (alla gola, alla gola).
La palla brucia ai lati.
Ma non ne ha. E si sente un po' in imbarazzo per tale mancanza in un momento di simile introspezione.
Basta.
Cinque lettere. Sono in piedi, quindi cinque verticale. (Ehi, là sotto, come hai detto?)
[..zz.]
Sbotto: "Cazzo!" (Grazie)
[Ma le pare. Quando si può]
"Non è colpa mia. (Mento sapendo di menta. E amarena) No. Proprio." (ahia, la palla)
Rugge di bile il blocco. E lo assecondo a piena voce: "Ecco com'è: non può, non vuole, non si sente pronta, non si sente, non crede, non ci crede, non mi crede, non mi vede, mi vede troppo, fatica, fa la fica, si lascia andare, si lascia, lascia, rimane, permane, sciamane (licenza), protesta, contesta, si desta e resta, alza la cresta, calpesta e fa festa, parla, burla, intreccia, streccia, discute, dibatte e rompe, lega e prega, odia, tedia, è sopra la media (via San Donato angolo via Paganini), tesse, fissa, scassa, lessa, ammassa, ammatassa, sfibra, si libra, imbrocca, lecca, stecca e fa cilecca, chiede, siede, vede e provvede, si avvede e risiede (due volte fa più male, se stai sotto), mozza, strozza, sgozza, sciala, mola, fa la spola [alla gola?](dai retta, ciccio, son cose mie)[permaloso di merda], magna, segna, sdegna, legna, [fr..](occhio!)[allora crogiolati](sì), attende, stende, pretende, sottende, intende, ammicca, appicca, spicca, fa la ripicca, t'impicca, essicca e… MUORE! E non mi piace soffrire. Ecco perché. NON E' COLPA MIA! TUTTO MUORE!"
[…]
"Sto qui e sto bene (a parte la sinapsi che ha trasmesso fino a poco fa). So già cosa c'è lì fuori e come funziona. Già visto, già fatto, giammai. Qui ho tutto e mi diverto. E mi faccio una cultura. Non si sa mai. Esci tu se vuoi."
[uhm]
"Le donne non sono come noi.
Funzionano in modo diverso."
[Già. Penso che vadano a gasolio]
La palla rotola soffice sul tappeto sintetico e si appoggia nel solito angolino.
['notte]
(…)
Palle.
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