BASTA TEOCRAZIA: fuori Dio dallo Stato e dalla Pubblica Istruzione!
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21 ottobre 2005

Di orgogli e pregiudizi

Le recenti discussioni sul caso Rockpolitik e l'interessante trasmissione della webradio Radio Alzo Zero sull'argomento (PS: Grazie ad Adriana per lo spazio concesso!) mi hanno fatto pensare. Vedere e sentire commenti così contrastanti, per toni ed argomenti, mi ha fatto riflettere non tanto sul "cosa", quanto sul "come". Non ci vuole un linguista (o meglio un semiologo) per capire che le parole creano la cultura, la cultura crea miti, ed i miti finiscono con l'imporre parole, le quali tornano a plasmare la cultura che hanno generato. Se vi divertite a farvi del male leggetevi Roland Barthes. Diamolo qui per appurato.
Nelle polemiche che "sfociano nella politica" (come se la politica fosse una... parolaccia) si tende spesso a mistificare, ad esaltare, ad omettere, a dare per scontato. Tutto in virtù di un proprio scopo e/o tornaconto. Che sia economico, dialettico, sportivo o -ancora- puramente politico poco importa. Perché si è abituati a chiamare "politica" qualunque presa di posizione sia contrapposta ad una già istituzionalizzata, e si svuota la parola del suo significato. Con tale effetto narcotizzante, squisitamente lessicale quanto socialmente efficace, anche la "satira" cessa di essere tale se diventa "politica". Il gigioneggiare asservito ed innocuo di un Bagaglino, gradito al potere proprio perché inoffensivo, diviene il prototipo della satira "lecita". Di politico vi è molto poco, difatti.
Luttazzi, Guzzanti, Grillo, Rossi, Celentano non sono innocui. Il tribunale ha confermato che NON SOLO quella di Raiot ERA SATIRA (perciò legale, democraticamente accettabile ma non accettata) e che le cose dette nella trasmissione censurata dopo solo una puntata erano addirittura VERE (ma pensa). La VERITA' e la SATIRA POLITICA sono quindi merce illegale nel servizio pubblico. Isole di falliti, orge calcistiche, case di persone davvero poco importanti, talponi delle fognature catodiche, DeFilippiche su giovani saltellanti ed infoiati sono invece lo STANDARD. Non fanno pensare, non distruggono e non creano niente (né pars destruens né pars construens), non rappresentano nulla e nessuno se non se stessi (proponendo, al massimo, "miti" ben poco edificanti cui aderire per inerzia o mancanza di meglio). La TV "di qualità" esiste? Non lo so. Come si "misura" la qualità? Non lo so. Ma i criteri di valutazione, come noi li conosciamo e adoperiamo per la vita politica, sociale e mediatica, hanno a mio parere molto in comune. Principalmente gli errori: falle logiche, slittamenti di significato, metonimie di comodo. Ecco che grazie a loro il fine crea il presupposto, il mito l'illecito e l'orgoglio il pregiudizio.
  • In politica. I criteri per valutare una figura politica (e tutto ciò che se ne può dire) sono i voti, il mandato, la rappresentanza. Fanno leva sugli errori logico/lessicali più comuni. Nessuno ha mai chiesto che "voti" implicasse supremazia, "mandato" onnipotenza e "rappresentanza" appartenenza. La dicotomia è semplice e inconciliabile: criteri quantitativi contro criteri qualitativi. La due parti non possono capirsi, è logico. Uno dice "Io ho avuto il 60% dei voti, li rappresento, ho il loro mandato" e l'altro "Sì, ma sei un mafioso". Non è un concetto di sinistra il mio. E' un ragionamento. Controesempio per par condicio? Ok. Il primo dice "Noi abbiamo un programma, e voi?" e il secondo "Gli italiani vogliono altro". Ci si disconferma vicendevolmente usando linguaggi non compatibili e annullando il senso dei discorsi. Tanto che, alla fine, la politica tutta si inaridisce e si accascia su un nulla ammantato di invettive e insulti da stadio. Che poi questo faccia il gioco della fazione di turno è una mia considerazione, ma tant'è. La responsabilità è di entrambi gli schieramenti. Di entrambi i rispettivi stereotipi.
  • Nella vita sociale. Capitalisti o post-capitalisti, abbienti o precari, padroni o operai, i soldi sono criterio di scambio: rappresentano ciò che "consentono" (beni necessari o superflui, lussi, favori, sfizi, potere). Quando si fa slittare il significato della parola, essi diventano "altro": iniziano ad essere un criterio di valutazione, a rappresentare "ciò che divide". Il ricco diviene attaccabile in quanto tale (il pregiudizio della corruzione) o invidiabile e venerabile in quanto tale (l'orgoglio del "self made man"). Inutile sottolineare che frasi come "Ha poco da fare l'uomo di sinistra, lui che ha la barca" denotano un ragionamento di una pochezza risibile (ma triste). Tanto quanto "Se non ho una lira è perché i padroni sono bastardi". Anche qui "quantitativo" e "qualitativo" cozzano e generano stereotipi sterili. La causa è ovviamente l'invidia, una brutta bestia. Genera arrivismo, vanità, rivendicazione, paura, vergogna, frustrazione e odio, a seconda della barricata e del vento. Crea e diventa mito. Ma non è questa la funzione originaria dei soldi. Ancora una volta la parola confonde il fine col mezzo. Confusione tra chi merita e chi no. Confusione che diventa palese e pervasiva nei media:
  • Nei media. Il criterio assoluto: lo share. Criterio quantitativo per antonomasia. E' adatto, logicamente parlando, per valutare la qualità di un programma? Con che faccia traslarlo forzatamente da un contesto privato a uno pubblico, da un'azienda a un servizio, dall'entertainment all'informazione? Con la faccia di Del Noce e dell'Annunziata, verrebbe da dire. Lo share decide per tutti (democraticamente questo è lecito) ma io, che sono parte di quei "tutti", non mi sento rappresentato: io non so neppure chi siano, questi "tutti". Posso solo astenermi dall'esserlo: guardare altro, non guardare affatto. Ma chi ha deciso "per me" che ciò che "l'audience vuole" è anche, tristemente, ciò che "l'audience merita"? Pienamente d'accordo sul caso della TV privata, "libera" di massacrare i suoi adepti con spazzatura e pubblicità, ma ricordo una RAI diversa perché diverso era il suo ruolo istituzionale. Perché diversa era la sua funzione sociale. Lottizzata, censurata (Vianello e Tognazzi ai tempi di "Un Due Tre" tanto per dirne una), grigia, conservatrice. Ma ha avuto una sua funzione oserei dire "poetica" dal '54 fino all'avvento dei barbari. Ci ha dato un'identità nazionale, ci ha insegnato a parlare italiano, ci ha intrattenuto ed informato, ha parlato alle famiglie e dato sporadici spazi alle prime sottoculture giovanili, educato e sorvegliato, ammiccato e redarguito, dandoci quel tanto di "America" che bastava per non sentirci più (tutti reduci della stessa follia mondiale) degli sfollati con le pezze ai piedi. Sogni quasi "formativi" per la cultura di una nazione, di un popolo. Erano illusioni ma non fregature. E lo share queste cose non le dice.
Politica, soldi, TV. Pare che il mondo inizi e finisca qui, lo so. In fin dei conti sono solo "cose". E le "cose", quando appurate, si tende spesso a "darle per scontate" e si bypassano. Ma è un rischio. Così facendo ci sarà sempre il pericolo di intere generazioni a cui quelle "cose" non sono state dette. Ed esse non le sapranno. Ci sarà spazio per revisionismi, laddove la storia delle "cose" non verrà insegnata con metodo e completezza. Penso a storie di partito, cause di guerre, pruriti creazionisti ultimamente tanto in voga negli ambienti scolastici e mi rendo conto che rischiamo di perdere il lume della ragione, oltre che il senso delle parole.
Ma rivediamo "come" ragioniamo, prima ancora che "su cosa". Proviamo a stabilire prima una lingua e delle parole che abbiano un senso condiviso e condivisibile.
Con la logica, lingua e parole le creano, le "cose".
Senza, è solo un folle rumore di fondo.
"Vi sono anche idoli che dipendono per così dire da un contratto e dai reciproci contatti del genere umano: noi li chiamiamo idoli del foro, riferendoci al commercio e al consorzio degli uomini. Il collegamento tra gli uomini avviene per mezzo della favella, ma i nomi sono imposti alle cose secondo la comprensione del volgo, e basta questa informe e inadeguata attribuzione di nomi a sconvolgere in modo straordinario l'intelletto. Né valgono certo, a ripristinare il naturale rapporto tra l'intelletto e le cose, tutte quelle definizioni ed esplicazioni delle quali i dotti si servono sovente per premunirsi e difendersi in certi casi. Perché le parole fanno gran violenza all'intelletto e turbano i ragionamenti, trascinando gli uomini a innumerevoli controversie e considerazioni vane." (F. Bacone - Novum Organum, I, 38-44)
"Perché la lingua batte se la mente vuole." (Frankie HI NRG - Potere alla parola)

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4 Comments:

Blogger JonVendetta said...

Grazie a te, altro che!
La Pastorale è pure troppo... Mi accontento della Sinfonia n.4 di Bruckner ("Romantica", 2 - Andante), oppure un brano qualunque degli Slayer, hehehe.
Attenzione: così mi viziate. Non che non mi faccia piacere...
A lunedì, allora!

23 ottobre, 2005 03:01  
Anonymous Anonimo said...

Sei proprio un False Vendetta !
Pretendi i Manowar in sottofondo !

23 ottobre, 2005 19:11  
Anonymous Anonimo said...

Dobbiamo però ricordare che tutto quello che succede, accade perchè fa comodo a qualcuno e non credo che questo qualcuno sia la sinistra! Berlusconi è appena passato da dittatore a vittima sacrificale, perchè "tutti ce l'hanno con lui!"Bondi ha detto che Rockpolitik è la dimostrazione che in Italia c'è libertà di parola! E' un modo per pararsi il culo in vista delle elezioni facendo passare la sinistra come la solita disfattista. Continuo a protestare nella speranza che non censurino anche internet!

24 ottobre, 2005 11:19  
Blogger JonVendetta said...

La frase di Padre Bondi è bella.
E' come se un cacciatore, alla chiusura di una stagione in cui ha predato tutto ciò che volava, tenesse una poiana viva in un recinto per mostrare placidamente di essere un animalista.

24 ottobre, 2005 12:32  

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